domenica 19 febbraio 2012

L'ipocrisia della polemica sull'articolo 18.

Mi sento sempre più a disagio di fronte alla polemica sul "famigerato" articolo 18.

Ormai siamo alla filosofia, anzi alla pedagogia. E così ecco giornalisti ed "esperti", oltre allo stesso Presidente del Consiglio, insegnare ai giovani che il posto fisso è morto, anzi è "noioso" e tutto sommato non sarebbe neppure desiderabile.

Una generazione di persone che al posto fisso non ha mai rinunciato, anzi, ha sempre preteso la protezione del proprio posto e dei propri diritti, elogia l'insicurezza (degli altri, ovviamente) ...

D'altronde siamo un paese profondamente paternalista (oltre ad essere sempre il paese della controriforma: interessante questo libro) e certe sparate, lungi dall'essere accolte con la dovuta perplessità, vengono ripetute e propalate con acritica approvazione.

Ma non è solo una questione di metodo (come si dice ora) a rendermi perplesso, ma il merito della questione.

Innanzitutto non è l'articolo 18 a impedire i licenziamenti.

I licenziamenti - giova ripeterlo - in Italia sono possibili, ma   vanno giustificati. E non è una posizione peculiare di noi italioti: in tutta Europa il licenziamento ingiustificato è impugnabile davanti al giudice.

La peculiarità italiana (e di altri paesi come l'Austria, ad.es.) è che il giudice può ordinare all'imprenditore che abbia effettuato un licenziamento in violazione delle regole di riassumere il lavoratore.

E' questo che offende i nostri i nostri "liberal-liberisti" (come i mitici Giavazzi-Alesina sul "Corriere della Sera")?

In fondo l'articolo 18 è espressione di un principio fissato nella nostra legge da Mussolini negli anni '40: il principio secondo il quale "Il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile. Tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore" (art.2058 c.c. sul "risarcimento in forma specifica") e in effetti i pretori italiani avevano già comunque iniziato a disporre la reintegrazione del lavoratore anche prima dell'approvazione dell'art.18.

Se il problema è la protezione del lavoratore, chiariamo subito che la sanzione risarcitoria (specie se limitata per legge ad un certo numero di mensilità) non ha alcuna efficacia: il lavoratore non ha alcuna possibilità di aspettare da disoccupato un risarcimento di 10 o 15 mensilità (che arriverebbe dopo tre gradi di giudizio e alcuni anni a casa senza soldi ...) e avrebbe interesse ad accettare qualunque transazione, che gli consentirebbe tra l'altro di cercare un nuovo lavoro (nessuno assume un lavoratore in causa con il proprio datore). Teniamo conto, poi, che per molti lavoratori (gli ultra quarantenni) le speranza di trovare un posto sono sempre stata estremante ridotte anche quando la crisi non c'era.

Se il problema è quello che l'articolo 18 scoraggerebbe le assunzioni, risponderei che non c'è alcuna prova empirica del fatto che la facilità di licenziare (come pure la 'flessibilità') aumenti l'occupazione.

Il tasso di inflazione italiano è in linea con quello dei paesi 'flessibili' e quello dei paesi (come l'Austria) dove c'è la sanzione della reintegrazione non è peggiore di quelli di altri paesi ...

Non c'è alcuna prova empirica che questa norma impedisca di assumere. Anzi, vediamo proprio della realtà italiana che l'introduzione della flessibilità (dal "pacchetto Treu" in poi) non ha aumentato l'occupazione ma ha solo aumentato l'area del lavoro "a tempo".

Sotto un profilo di puro diritto, poi, se il problema fosse che le regole italiane sono troppo rigide in tema di licenziamento, dovremmo concentrarci sulle regole che consentono (o non consentono) di licenziare. 

Limitarsi a depotenziare la sanzione è la tipica risposta "all'italiana"  ed un modo di rifiutarsi tanto di tutelare quelli che sono illecitamente licenziati quanto quelli che avrebbero la necessità legittima di ridurre il personale (o di liberarsi di fannulloni o dei fetenti).

Tra l'altro, accanirsi sul posto fisso va oltre.

L'economia italiana, almeno per tutto il '900, si è basata sul posto fisso (articolo 18 o meno chi voleva lavorare lavorava e aveva la ragionevole aspettativa di continuare ad occupare lo stesso posto) e il tanto vantato risparmio degli italiani (e in primis la casa di proprietà) è frutto di questa epoca.

Che l'eliminazione del posto fisso sia un valore, mi sembra difficile da dimostrare.
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