lunedì 31 marzo 2008

"Tu dare a me i codici del tuo home banking"

Vi ricordate il "virus albanese"?

Era una burla, bonaria e - tutto sommato - spiritosa, anche se non "politically correct".

Il "virus albanese" era una mail redatta più o meno così:

"In questa momenta voi avere ricevuto "virus albanese".

Siccome noi nela Albania no ha esperienza di softuer e programmaziona, questo virus albanese funziona su principio di fiducia e cooperazione.
Allora, noi prega voi adesso cancela tutti i file di vostro ar disc e spedisce questo virus a tutti amici di vostra rubrica.
Grazia per fiducia e cooperazione"
L'altro giorno ho ricevuto questo messaggio di phishing, che mi ha proprio ricordato il "virus albanese":

"Poste Italiane Caro cliente,

Ci dispiace informarvi che Poste Italiane il vostro account potrebbe essere sospeso se non si ri-aggiornare le informazioni sul tuo account.
Per risolvere questo problema si prega di cliccare qui e immettere nuovamente le informazioni sul tuo account.
Se i vostri problemi Non poteva essere risolto il tuo account verrà sospeso per un periodo di 24 Ora, dopo questo periodo, il tuo account verrà chiuso.
Accordo per l'utente, Sezione 9, possiamo rilasciare immediatamente un avvertimento, Sospendere temporaneamente, sospendere o chiudere indefinitamente la propria iscrizione, e rifiutare di fornire i nostri servizi a lei se crediamo che le vostre azioni possono causare perdita finanziaria o la responsabilità legale per lei, i nostri utenti o di noi. Possiamo anche prendere queste azioni vietato utilizzare Poste Italiane in alcun modo. Questo include la registrazione di un nuovo account.
Tieni presente che questa sospensione
non esonera dei vostri concordato-upon obbligo di pagare le tasse è possibile Il dovere di Poste Italiane.

Cordiali saluti, sicuro Dipartimento di Poste Italiane, Inc"
Veramente una chiavica ;-)

Però la maggior parte dei messaggi di phishing contiene evidenti errori (frutto di uso non accorto di traduttori automatici) e palesi inverosimiglianze.

Eppure un mare di gente ci è caduta (e ha poi fatto causa alla banca ....).

Ma possibile? Evidentemente sì.

Evidentemente nella foga di associare tutti alle "magnifiche sorti e progressive" dell' e-banking, dell'e-government, dell' e-commerce, della "new economy" (che poi non ci ha mai restituito una diminuzione delle tariffe .....) abbiamo arruolato - come si suol dire - cani e porci.

E ora qualcuno dovrà pagarne le perdite.

Allegria.

domenica 30 marzo 2008

Avvocati e protezione dei dati personali

Da anticipazioni rilasciate sulla lista dataprotection.it dell'ottimo Alessandro Monteleone, sarebbe in corso di pubblicazione un "Codice di deontologia e di buona condotta per il trattamento dei dati personali effettuato per svolgere investigazioni difensive o per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria".

Sarà presumibilmente pubblicato a breve sul sito del Garante per la protezione dei dati personali.

Il codice deontologico costituisce applicazione dell'art. 135 del D.Lgs.196/03, il quale prevede che: "Il Garante promuove, ai sensi dell'articolo 12, la sottoscrizione di un codice di deontologia e di buona condotta per il trattamento dei dati personali effettuato per lo svolgimento delle investigazioni difensive di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 397, o per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, in particolare da liberi professionisti o da soggetti che esercitano un'attività di investigazione privata autorizzata in conformità alla legge".

Come molti argomenti in materia di protezione dei dati personali, questo "codice deontologico" susciterà senz'altro discussioni e - fatalmente - polemiche.

Non conosco il contenuto di questo "codice deontologico", alla cui elaborazione hanno quanto meno partecipato esponenti dell'avvocatura (oltre che, immagino, rappresentanti degli investigatori privati e altri soggetti), ma l'argomento "protezione dei dati personali" è un argomento per sua natura invasivo e la materia "regolamentata" (perché di vera e propria norma regolamentare si tratta), ossia il diritto di difendersi in giudizio (e, più in particolare, il diritto di difendersi provando) è materia di immediata rilevanza costituzionale, oltre che il fondamento stesso della professione di avvocato e - ovviamente - di investigatore privato.

Vi saranno sicuramente delle critiche "di categoria", specie da parte di quegli avvocati ritengono che la categoria dovrebbe essere esentata dall'applicazione della normativa in materia di dati personali ....

Il fatto, poi, di "subire" un codice deontologico promosso da un'autorità esterna all'avvocatura, costituisce senz'altro (per gli avvocati) un fattore di novità e di forte rottura con il passato.

I problemi, però, a mio avviso sono altri.

Infatti i temi di possibile conflitto tra diritto alla tutela dei dati personali (non confondiamo la data protection con la "semplice" privacy) e diritto alla difesa (ed esercizio concreto delle professioni di avvocato e di investigatore privato) sono molteplici, sia in tema di onere di informativa, che di obbligo di ottenere eventualmente il consenso dell'interessato, che di pertinenza del trattamento, che di liceità stessa del trattamento (specie in tema di "dati sensibili" dove vi sono norme che - a distanza di oltre 10 anni - ancora attendo mi vengano spiegate, come quella che prevede che i "dati sensibili" possono essere trattati solo se è in gioco un diritto di rango pari o superiore ....). Mi chiedo se sia corretto affidarne il contemperamento ad un "semplice" regolamento, sia pure emanato sulla base dei lavori di un gruppo di rappresentanti dei professionisti più direttamente interessati .....

Attendo curioso.

La politica ai tempi di lilliput

Trovato su la legge è uguale per tutti:

lunedì 24 marzo 2008

Tutto il mondo è paese? Salari, produttività e prezzi

Leggo oggi su Washington post un articolo che mi fa riflettere. Non perché dice cose nuove, ma perché parla di cose ovvie, tanto ovvie che sono vere sia qui che oltreoceano.

Il tema dell'articolo è che i lavoratori americani, nonostante l'aumento di produttività, stanno subendo una diminuzione del potere d'acquisto dovuto all'aumento notevole dei costi della sanità.

Già, perché il costo della sanità è tanto aumentato da pesare sul costo del lavoro per più del 30% con l'effetto di ridurre i soldi disponibili per gli stipendi netti, sia a seguito dell'aumento della parte a carico del datore di lavoro nei piani di assistenza privati inseriti nei contratti di lavoro sia per l'aumento dei contributi stessi a carico dei lavoratori.

Lasciamo stare osservazioni sul fatto che una sanità in larga parte privata non sembri preservare da aumenti di costi (anzi) e sulla notizia che, per migliorare la capacità dei lavoratori di spuntare condizioni migliori dalle assicurazioni private tramite la contrattazione collettiva, i vari candidati alla presidenza spingano per una maggior sindacalizzazione delle imprese (in netta controtendenza con le spinte nostrane ...).

Il fatto è che da noi, dopo anni di idillio in cui l'Istat ci diceva che gli stipendi correvano più dell'inflazione e il sole 24 ore e il corriere della sera ci dicevano che era necessario ridurre (“moderare”) gli stipendi in linea con altri paesi per aumentare la competitività, ci accorgiamo di avere gli stipendi più bassi d'Europa (senza avere aumentato la competitività, che dipende anche da fattori organizzativi e tecnologici in larga parte ignorati) con , tra l'altro, l'effetto di una più limitata capacità di assorbimento del nostro “mercato interno”, il primo mercato delle imprese italiane......

Ora la ricetta per la soluzione della situazione interna, al limite per famiglie che guadagnino 1500/2000 euro al mese, ossia la grande maggioranza dei salariati, è quella di legare gli aumenti all'aumento della produttività.

Ben venga l'aumento della produttività, ma la produttività dipende (vedi sopra ) da fattori diversi e non tutti legati alla prestazione del singolo (che comunque deve fare la sua parte, ci mancherebbe altro).

Sorvoliamo anche su quanto acutamente osserva dalle8alle5 (che comunque vi invito a leggere), ma dal punto di vista delle famiglie la battaglia è persa in partenza (America docet) se non si riescono a mettere sotto controllo una serie di costi essenziali, come quelli legati – appunto - alla sanità, agli alimentari, alle case ... etc.

Intendiamoci: la sfida della produttività ci riguarda tutti e va perseguita, ma non pigliamoci per il .....


domenica 23 marzo 2008

"E via alègher..."

Carlo Maria Cipolla è uno storico dell'economia che ha avuto un destino in certo modo strano.

Professore in Italia e negli Stati Uniti, si è dedicato alla ricerca storica, non tanto approfondendo la sequenza di fatti "politici" (regni, rivoluzioni, guerre), ma cercando di ricostruire i fattori economici e tecnologici che li hanno determinati ed è stato autore di libri interessanti e molto leggibili.

Ad onta di studi interessanti ed apprezzati in ambito accademico e anche all'estero, ha avuto rinomanza presso il pubblico italiano per un libro che lui stesso definiva uno scherzo o meglio, un divertimento: "Allegro ma non troppo", nel quale ha formulato la sua apprezzata teoria della stupidità umana, articolata in cinque leggi:
  1. Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione.
  2. La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della persona stessa.
  3. Una persona è stupida se causa un danno a un’altra persona o ad un gruppo di persone senza realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo un danno.
  4. Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide; dimenticano costantemente che in qualsiasi momento e luogo, e in qualunque circostanza, trattare o associarsi con individui stupidi costituisce infallibilmente un costoso errore.
  5. La persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista.

Non ho mai avuto occasione di incontrarlo, ma persone che hanno avuto modo di conoscerlo personalmente, mi hanno raccontato di un carattere forte e indomabile, di una persona che, anche negli ultimi anni afflitto da una malattia che gli rendeva difficile anche articolare le parole, spesso salutava l'interlocutore con un un'espressione in dialetto, che era un po' il suo motto: "e via alègher!" ....

[ndr: in molti dialetti della bassa padana, "alègher" significa allegro]

mercoledì 19 marzo 2008

La rilevanza costituzionale della satira

"La satira è configurabile come diritto soggettivo di rilevanza costituzionale; tale diritto rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 21 Cost. che tutela la libertà dei messaggi del pensiero.
Il diritto di satira ha un fondamento complesso individuabile nella sua natura di creazione dello spirito, nella sua dimensione relazionale ossia di messaggio sociale, nella sua funzione di controllo esercitato con l’ironia ed il sarcasmo nei confronti dei poteri di qualunque natura.

Comunque si esprima e, cioè, in forma scritta, orale, figurata, la satira costituisce una critica corrosiva e spesso impietosa basata su una rappresentazione che enfatizza e deforma la realtà per provocare il riso. Ne è espressione anche la caricatura e, cioè, la consapevole ed accentuata alterazione dei tratti somatici, morali e comportamentali di una persona realizzata con lo scritto, la narrazione, la rappresentazione scenica. La satira è espressione artistica nella misura in cui opera una rappresentazione simbolica che, in modo particolare la vignetta, propone quale metafora caricaturale. La peculiarità della satira, che si esprime con il paradosso e la metafora surreale, la sottrae al parametro della verità e la rende eterogenea rispetto alla cronaca; a differenza di questa che, avendo la finalità di fornire informazioni su fatti e persone, è soggetta al vaglio del riscontro storico, la satira assume i connotati dell’inverosimiglianza e dell’iperbole per destare il riso e sferzare il costume. Insomma, la satira è riproduzione ironica e non cronaca di un fatto; essa esprime un giudizio che necessariamente assume connotazioni soggettive ed opinabili, sottraendosi ad una dimostrazione di veridicità.

Mentre l’aperta inverosimiglianza dei fatti espressi in forma satirica esclude la loro capacità offensiva della reputazione, dell’onore e del prestigio, diversamente deve dirsi in caso di apparente attendibilità di tali fatti. Incompatibile con il parametro della verità, la satira è, però, soggetta al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni adoperate rispetto allo scopo di denuncia sociale perseguito. Sul piano della continenza il linguaggio essenzialmente simbolico e frequentemente paradossale della satira – in particolare di quella esercitata in forma grafica – è svincolato da forme conven
zionali, per cui è inapplicabile il metro della correttezza dell’espressione. In questo ambito concettuale è stato affermato – soprattutto dalla giurisprudenza penale della Suprema Corte – che la satira, al pari di ogni altra manifestazione del pensiero, non può infrangere il rispetto dei valori fondamentali della persona, per cui non va riconosciuta la scriminante di cui all’art. 51 c.p. per le attribuzioni di condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, la deformazione dell’immagine in modo da suscitare disprezzo o dileggio. Più particolarmente è stata esclusa la scriminante nella satira che, trasmodando da un attacco all’immagine pubblica del personaggio, si risolva in un insulto gratuito alla persona in quanto tale o nella rappresentazione caricaturale e ridicolizzante di alcuni magistrati posta in essere allo scopo di denigrare l’attività professionale da loro svolta attraverso l’allusione a condotte lesive del dovere funzionale di imparzialità.

Il diritto di critica si concretizza nell’espressione di un giudizio o, più genericamente, di un’opinione che sarebbe contraddittorio pretendere rigorosamente obiettiva, posto che per sua natura la critica non può che essere fondata su un’interpretazione necessariamente soggettiva di fatti e comportamenti. Per essere legittima e prevalere sul diritto alla reputazione dei singoli il diritto di critica deve essere esercitato entro limiti oggettivi fissati dalla logica concettuale e dall’ordinamento positivo. Occorre, cioè, un bilanciamento dell’interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero costituzionalmente garantito; bilanciamento da ravvisarsi nell’interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza non del fatto oggetto di critiche, che è presupposto da essa ed è perciò fuori di essa, bensì di quella determinata interpretazione del fatto."


http://www.cortedicassazione.it/Documenti/23314.pdf

domenica 16 marzo 2008

Da qui all'eternità?

Ringraziando Marco Scialdone, che ha pubblicato il link sul suo blog, inserisco di seguito un filmato trovato sul YouTube: "The Disney Trap: How Copyright Steals our Stories" (ossia: "La trappola di Diseny: come il diritto d'autore sta rubando le nostre storie").

E' in inglese (ma con sottotitoli in italiano) e un po' lungo (17 minuti), ma è comunque un'esposizione ironica e molto chiara delle recenti tendenze in materia di "protezione" della proprietà intellettuale.


La tendenza ad allungare la durata della protezione offerta dal diritto d'autore è in atto da un po', con un simpatico "rimpallo" tra le due sponde dell'oceano atlantico, con USA e UE ad aumentare - a turno - la durata del diritto d'autore per adeguare la propria legislazione a quella d'oltreoceano.

Proprio poche settimane fa, il commissario europeo McCrevy ha annunciato con gran fanfara che è sua ferma intenzione aumentare i diritti di interpreti ed esecutori da 50 a 95 anni.

Il commissario si affretta a spiegare che questa tutela servirebbe a riequilibrare maggiormente la situazione tra gli autori, ai quali è riservata la facoltà di trarre profitto dalla propria opera per tutta la vita, oltre a un congruo periodo (70 anni) dopo la morte, e gli interpreti ed esecutori – parimenti elementi essenziali per la realizzazione di un'opera – che godrebbero dell'opera per solo 50 anni dall'interpretazione. Posto che molti interpreti/esecutori eseguono le loro prestazioni molto giovani (20/30 anni), un tutela di soli 50 anni rischierebbe di non durare per tutta la loro vita e di privarli, sotto il profilo economico, del conseguente vitalizio.

La notizia è stata riportata come un' estensione del “copyright” (diritto d'autore), ma non è esatto. Si tratterebbe, infatti, di un'estensione dei cd. “diritti connessi”, riconosciuti a soggetti (come ad es. interpreti ed esecutori) ai quali i diritti d'autore non spetterebbero, in quanto la loro attività non dà vita ad un'opera nuova, ma “si limita” all'esecuzione di un'opera preesistente.

Nulla di male a tutelare anche gli esecutori, anzi, ma fatico a capire dove debba essere detto che la tutela debba durare (almeno) come la loro vita. In un periodo storico nel quale è sempre più evidente la crisi delle “certezze economiche” del passato (del secolo scorso, dovrei dire) e nemmeno il mitico “posto in banca” o l'impiego statale hanno più i connotati della sicurezza assoluta, ci si preoccupa del benessere dei "poveri" autori?


Scusate il cinismo, ma la notizia ... "puzza".
E, infatti, già scorrendo il comunicato stampa vediamo che: "For session musicians, the record companies will set up a fund – a substantial fund reserving at least 20% of the income during the extended term to them. For featured artists, original advances may no longer be set off against royalties in the extended term. That means the artist would get all the royalties during the extended term."

Traducendo sommariamente si ricava che, mentre per i semplici musicisti le case discografiche dovrebbero mettere a disposizione almeno il 20% delle royalties riscosse (il che fa pensare che ora possa non essere così), per gli interpreti (principali) dovrebbe essere vietato alle case discografiche incamerarne i diritti a fronte di "anticipazioni" già fatte.

E già, perchè i "dritti connessi" a differenza dei diritti d'autore, sono riscossi direttamente da ciascuna casa discografica, che poi li ridistribuisce agli aventi diritto per quanto riguarda la "pubblica esecuzione" dell'incisione, fermo restando che - se ben ricordo - il diritto di autorizzare la riproduzione del "fonogramma" (ossia dell'incisione) spetta direttamente ed esclusivamente alla casa discografica (come pure i relativi compensi).

E così si finirebbe, di fatto, ad estendere il "signoraggio" delle case editrici nei confronti di opere già, per così dire, già piuttosto stagionate, senza che la motivazione "pensionistica" convinca più di tanto (tra l'altro con l'estesione a 95 sarebbero coperti anche i figli e i nipoti dei "poveri" interpreti ...).






venerdì 14 marzo 2008

Akzo reloaded


Akzo Nobel, la società olandese nei cui confronti è stata emessa un'importante sentenza della Corte Europea di prima istanza in tema di diritto al segreto professionale dei legali interni ha impugnato il provvedimento presso la Corte di Giustizia della Comunità Europea.

Come avevo accennato in un precedente post, la Corte europea di prima istanza aveva negato che al legale che fosse legato ad una società da un rapporto di lavoro dipendente fosse possibile riconoscere il diritto al segreto professionale ("legal privilege") relativamente agli affari trattati come dipendente.

Ora la "Law Society of England and Wales" (l'associazione che rappresenta 136.000 avvocati di Inghilterra e Galles, dipendenti e liberi professionisti) ha presentato un'istanza per intervenire nel procedimento.

In estrema sintesi la Law Society osserva che - negando il legal privilege - la Corte finisce per "depotenziare" il ruolo dei legali interni, imponendo loro - per mantenere la riservatezza - di ricorrere ad avvocati esterni, contrariamente ad ogni principio di efficenza (punto 37), quando proprio il fatto che il legale interno è già inserito nella struttura ed è disponibile immediatamento assicurerebbe una più tempestiva risposta alle esigenze di consulenza legale (punto 38).

La sostanziale differenza tra la situazione inglese ed olandese (il paese della Akzo Nobel) e quella nostrana (e francese) è che in Inghilterra e Olanda non vi è la preclusione a che un avvocato dipendente rimanga iscritto all'ordine.

In Inghilterra e Olanda sembrano perfettamente a proprio agio in questa situazione (al punto che la locale associazione degli avvocati interviene in giudizio a tutela delle prerogative dei propri iscritti dipendenti), mentre da noi no (mi par di vederlo il Consiglio Nazionale Forense intervenire a tutela degli delle prerogative degli iscritti alla sezione speciale dell'albo .....).

Perchè?


domenica 9 marzo 2008

Gli avvocati e le regole

Leggo sul blog di Daniele Minotti che sta montando all'interno dell'avvocatura la protesta contro le norme sulla formazione permanente (obbligatoria) degli avvocati.

Pensavo che fossero voci isolate, ma da quanto ho sentito in altra sede non è così.

Mi sembra che questi avvocati abbiano perso un ottima occasione per stare zitti.

Scusate il tono, ma che l'avvocato debba costantemente aggiornarsi è ovvio e nessuno lo discute. E non parlerei solo di avvocati, ma anche di medici, insegnanti, etc ... . Tutti direi. Altre categorie (come i commercialisti, ad esempio) la formazione permanente ce l'hanno da tempo.

Mi sembra il minimo che una categoria con accesso "protetto" tramite esame e che si avvantaggia di una "riserva legale" (per lo meno per quanto riguarda il contenzioso giudiziale, che - poi - è tutt'ora di gran lunga la principale attività degli avvocati) debba non solo aggiornarsi, ma anche dimostrare di farlo. Nel suo stesso interesse.

L'aggiornamento tramite il lavoro non basta e lo sappiamo bene.

Sono d'accordo che i corsi possono non essere sempre il massimo, che ai corsi obbligatori ci va gente che non ha nessuna voglia di imparare, ma va solo a timbrare il cartellino, che le cose che servono sono altre, ma ... scusate: non sono le stesse obiezioni che si fanno alla scuola dell'obbligo? Eppure nessuno (salvo alcuni liberal dell'estrema destra americana) ne propone l'eliminazione, anzi, ci si chiede come migliorare (e la risposta è spesso - paradossalmente - che bisogna assicurare l'aggiornamento costante degli insegnanti ... ).

Bah, mi sembra la stessa cosa di quando gli avvocati si sono accorti (la legge, peraltro, era in vigore da diversi anni) che la normativa sulla privacy si applicava anche a loro e hanno subito presentato un disegno di legge in parlamento per essere esentati, sostenendo di essere "diversi" .....

A me sono sembrate (come la proposta di un'assicurazione obbligatoria per la responsabilità professionale) ottime occasioni per riqualificare la professione e la figura degli avvocati, oltre che per sbattere fuori tante figure "marginali" che appestano la professione e danneggiano i clienti ....

Bah, non capisco.



sabato 8 marzo 2008

Google e l'obbligo di sorveglianza


Google torna ancora sotto il tiro della giurisprudenza francese.

Una pronuncia del 20 febbraio 2008 del Tribuanale di Commercio di Parigi ha condannato google video per la messa a disposizione di un filmato dopo la notizia dell'illieceità del medesimo .

In sintesi: una casa editrice aveva contestato a google video che una propria opera era accessibile tramite i servizi di quest'ultima. Google video aveva quindi prontamente comunicato di aver rimosso l'opera, ma - come risultato da successivi controlli - detta opera continuava ad essere disponibile tramite google video.

La corte francese ha riconosciuto a google video la qualifica di "hosting provider" ai fini dell'applicazione della disciplina di favore prevista dalle direttive europee in tema di limitazione di responsabilità di contenuti caricati autonomamente da terzi e in tema di assenza di obbligo generale di sorveglianza (la stessa disciplina, tra l'altro, applicabile in Italia). Tuttavia, non senza un certo compiacimento per il gioco di parole, il tribunale ha ritenuto che "Attendu que si l’hébergeur n’est pas tenu à une obligation de surveillance générale, il est tenu à une obligation de surveillance, en quelque sorte particulière, à partir du moment où il a eu connaissance du caractère illicite du contenu" e cioè che il fornitore di servizi di " hosting" ("hébergeur") non è tenuto ad un obbligo di sorveglianza generale, ma - comunque - è tenuto ad una sorta di obbligo di sorveglianza particolare dal momento della conoscenza del carattere illecito del contenuto reso disponibile in rete.

Fatta la legge, trovato l'inganno?

Lungi da me sostenere tesi che propugnano la "libertà" di internet dalle regole e dal diritto. Secondo me non può esistere libertà senza regole e senza diritto, anzi la libertà senza regole e, in particolare la libertà dalle regole, mi fa orrore perchè - se ci pensate bene - i risultato della libertà dalle regole è niente più e niente meno della "legge della giungla", ossia l'arbitrio del più forte. L'importante è che le regole siano chiare (possibilmente giuste) e note in anticipo.

La disciplina europea che regola la responsabilità e gli obblighi di intervento dei fornitori di servizi di "hosting" (ossia dei fornitori di "spazio web", opposti - a questi fini - ai fornitori dei "contenuti", ossia gli autori e gli "editori" in senso più tradizionale) è nata proprio da un caso francese (il caso "altern.org") per chiarire che il fornitore di spazio web che non sia anche l'autore o l'editore dei contenuti (editore inteso come il soggetto che comunque determina che cosa va pubblicato) non sono non è responsabile del contenuto (non suo), ma non è nemmeno tenuto a vigilare (e a filtrare) i contenuti da altri resi disponibili tramite i suoi servizi.

Alla base della disciplina, oltre all'esigenza di chiarimento (e di giustizia), vi è anche anche la considerazione, assolutamente empirica e di buon senso, che un filtraggio dei contenuti è in pratica impossibile.

Ora purtroppo si sta affermando l'atteggiamento che vede i fornitori di servizio di accesso a internet (ancora più lontani dal controllo di contenuti dei fornitori di servizi di "hosting") eretti a guardiani delle possibili violazioni dei loro utenti.

Capisco la preoccupazione di chi vede un'opera protetta riapparire a più riprese nei motori di ricerca nonostante ripetuti interventi, ma a mio avviso un obbligo di sorveglianza, giuridicamente, non esiste e non lo si può fondare sui giochi di parole e sugli aggettivi di una normativa che non è realmente esentativa (anzi, sotto certi aspetti ha chiarito l'esistenza di obblighi di intervento successivi, prima non pacifici) che non possono supplire alla mancanza di una norma sostanziale che fondi la responsabilità che si intende affermare.


Sto andando troppo sul tecnico......

Buon week end.







giovedì 6 marzo 2008

Gli avvocati del diavolo (e i diavoli degli avvocati ...)

Leggo oggi su repubblica.it che è uscito "avvocato di difesa", che altro non è che la traduzione in italiano di "The Lincoln Lawyer", da me commentato già nello scorso dicembre.

Le lodi di repubblica.it ("per gli appassionati del processo all'americana sarà uno sballo", "Era dai tempi di American Psycho che non si incontrava un esempio così puro di assenza pneumatica di coscienza") sembrano un po' di maniera o un po' .... sparate, ma il libro merita di essere letto.

Il libro è ben scritto, la trama è ben bilanciata e il tema (il conflitto tra la lealtà verso il cliente e la consapevolezza che - per un avvocato penalista - non c'è peggior nemico del cliente innocente) è davvero azzeccato ed intrigante.

sabato 1 marzo 2008

Akzo e dintorni ....

La "sentenza Akzo" è una sentenza della Corte europea di prima istanza del 17 settembre 2007 (causa Akzo Nobel Chemicals Limited and Akros Chemicals Limited contro la Commissione delle Comunità Europee) che ha negato che l'avvocato dipendente di una società possa, alla pari di un suo collega libero professionista, opporre il segreto professionale in un'inchiesta con riferimento alla pratiche trattate per conto della società che rappresenta.

In Italia la sentenza ha provocato poco dibattito, ma - in effetti - da noi l'avvocato dipendente, formalmente, non esiste o è relegato ai pochi uffici pubblici che hanno ancora un ufficio legale interno.

In altri paesi dove, come il Regno Unito, la figura dell'avvocato-dipendente è del tutto normale, la pronuncia ha suscitato qualche maggiore discussione.

La Corte Europea, sul punto, ha confermato un precedente orientamento secondo il quale - in estrema sintesi - la "riservatezza delle comunicazioni tra avvocati e clienti, si applicava soltanto a condizione che tali avvocati fossero indipendenti, vale a dire non legati al proprio cliente da un rapporto di lavoro dipendente .... Ne consegue che la Corte ha espressamente escluso le comunicazioni con i giuristi d’impresa, vale a dire i consulenti legati ai loro clienti da un rapporto di lavoro dipendente, dalla tutela del principio di riservatezza".

La pronuncia contiene, poi, altri interessanti principi, come quelli secondo i quali:

  1. la riservatezza professionale (in questa problematica si fa spesso riferimento all' espressione inglese di: "legal privilege") "è volta, in primo luogo, a garantire l’interesse pubblico ad una buona amministrazione della giustizia consistente nell’assicurare che ogni cliente abbia la libertà di rivolgersi al proprio avvocato senza temere che le confidenze eventualmente comunicate possano essere ulteriormente divulgate";
  2. in tale ottica (punti 122 e 123 della sentenza) ".... affinché il singolo possa avere la possibilità di rivolgersi utilmente e con piena libertà al proprio avvocato e perché quest’ultimo possa esercitare efficacemente il proprio ruolo di collaboratore dell’amministrazione della giustizia e di assistenza giuridica ai fini del pieno esercizio dei diritti della difesa, può rivelarsi necessario, in talune circostanze, che il cliente prepari documenti di lavoro o di sintesi, in particolare allo scopo di riunire informazioni che saranno utili, se non indispensabili, a tale avvocato per comprendere il contesto, la natura e la portata dei fatti a proposito dei quali viene richiesta la sua assistenza. ...... Pertanto, si deve concludere che i suddetti documenti preparatori, anche se non sono stati scambiati con un avvocato o non sono stati predisposti per essere materialmente trasmessi ad un avvocato, possono comunque beneficiare della riservatezza delle comunicazioni tra avvocati e clienti, dato che sono stati elaborati esclusivamente al fine di chiedere un parere giuridico ad un avvocato, nell’ambito dell’esercizio dei diritti della difesa. Invece, il semplice fatto che un documento sia stato l’oggetto di discussioni con un avvocato non sarebbe sufficiente a conferirgli tale tutela";
  3. sotto il profilo dell'indipendenza richiesta per beneficiare del "legal privilege" la Corte aggiunge che "la Corte, nella sua sentenza AM & S, ha definito negativamente il concetto di avvocato indipendente in quanto essa ha richiesto che detto avvocato non sia vincolato al suo cliente da un rapporto di lavoro dipendente (v. supra, punto 166),...... La Corte sancisce, pertanto, il criterio di un’assistenza legale fornita «in piena indipendenza» (sentenza AM & S, punto 24), da essa identificata con quella fornita da un avvocato che sia, strutturalmente, gerarchicamente e funzionalmente, terzo rispetto all’impresa che beneficia di detta assistenza"

Il concetto di indipendenza come discrimine tra dipendente (sia pure con mansioni legali) e avvocato "a tutti gli effetti" (ossia iscritto all'albo e abilitato ad assumere difese in giudizio) è noto e applicato anche in Italia, posto che - nonostante la legge consenta agli enti pubblici di iscrivere i propri dipendenti muniti di abilitazione all'albo degli avvocati (sia pure nella sola sezione ad essi riservata) - la prassi dei consigli dell'ordine, prima, e la giurisprudenza ordinaria, poi, ha limitato tale facoltà a quei dipendenti inseriti in strutture (interne) gerarchicamente e funzionalmente indipendenti ...

Giudicato con il metro di tale giurisprudenza, il malcapitato avvocato olandese della causa Akzo avrebbe potuto essere riconosciuto "indipendente"? E' una domanda provocatoria. Nessuno può saperlo, ma certo è che già il semplice rapporto di lavoro dipendente con la società oggetto di indagine giocava contro di lui.

E' un'argomento difficile e probabilmente non ancora del tutto maturo, non essendo stato risolto - a livello legislativo - il dilemma che si intravede sullo sfondo della controversia: un avvocato può essere un dipendente ed essere ancora considerato un avvocato?

Eppure di avvocati dipendenti ce ne è migliaia, anche limitandosi agli iscritti agli ordini e anche in Italia.

Lasciamo stare i dipendenti pubblici iscritti ad "albo speciale", ma che dire degli "avvocati collaboratori" o - ancora di più - dei dipendenti dei grandi studi legali internazionali (gli "studi illegali di Duchesne ;-)), che lavorano principalmente (avvocati "collaboratori") od esclusivamente (grandi studi) per il proprio "dominus" (che, ... non a caso, in latino vuol dire "padrone") o per il proprio studio, per i quali "staccano" dodici fatture uguali (lo "stipendio") più uno variabile (il bonus)? Lasciamo stare la questione del "legal privilege", che - ripeto - non è matura, ma davvero questi avvocati sono più indipendenti dei dipendenti addetti ad un ufficio legale per il solo fatto di essere liberi professionisti e non avere un rapporto di lavoro dipendente (e le correlative tutele dello "statuto dei lavoratori")? Pensateci bene.....






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